PERCHÈ SI DECIDEVA DI PARTIRE:
COME CI SI PREPARAVA PER IL VIAGGIO:
COME SI VIAGGIAVA:
A seconda delle reti famigliari e di paese del migrante, ma anche delle offerte di lavoro e delle opportunità di insediamento, gli italiani si ritrovarono spesso negli stessi Paesi, nelle stesse regioni, negli stessi quartieri. Per raggiungere il luogo scelto come meta di destinazione, i migranti hanno seguito percorsi non di rado tortuosi, imboccato a piedi strade e sentieri, preso treni e navi. Il viaggio, che prevedeva il transito per diverse stazioni ferroviarie, porti e centri di controllo, poteva rivelarsi più o meno semplice e avvenire con o senza passaporto, in modo legale o illegale.
Durante la grande emigrazione sono state registrate più di 14 milioni di partenze al di là dei confini nazionali, anche se queste cifre non tengono conto del fenomeno dei rientri che, nel periodo che va dal 1861 alla Seconda guerra mondiale, si aggirarono attorno alla metà. Geograficamente, i flussi migratori hanno spaziato per tutti i continenti, ancorché in misura diversa. L’Italia contribuì con percentuali analoghe all’esodo verso l’Europa e verso le Americhe, ma una notevole differenza è data dalle zone di partenza: il Mezzogiorno fornì il 90% della propria emigrazione alle Americhe, privilegiando gli Stati Uniti. Dal settentrione l’emigrazione privilegiò l’Europa e l’America Latina, con ulteriori suddivisioni per quello che riguarda le mete transoceaniche: dal Veneto si andò prevalentemente in Brasile, mentre i piemontesi privilegiarono l’Argentina. Dalle regioni dell’Italia centrale l’emigrazione si divise equamente tra stati nordeuropei e mete transoceaniche.
Il viaggio in treno per raggiungere i paesi dell’Europa settentrionale era non solo altrettanto lungo, ma costava più di quello sul bastimento.
Il percorso via nave, che forse più di altri costituisce l’immaginario dell’emigrazione italiana di fine Ottocento, rappresentava un pericolo tangibile per quanti partivano. Le condizioni stesse in cui avveniva il viaggio erano tali da esporre i migranti a forti rischi per la loro salute. Questo non solo a causa della lunga permanenza a bordo che prolungava i rapporti immediati e dunque aumentava la possibilità di contagi, ma anche perché i dormitori in cui erano alloggiati erano luoghi insalubri, privi di aria, luce, servizi igienici adeguati.
Ancora nel primo decennio del Novecento poteva accadere che le compagnie di navigazione, per lucrare ulteriormente sui viaggi, adibissero a dormitori le stive delle navi. La legge del 1901, che avrebbe dovuto garantire la tutela dei migranti anche dal punto di vista della sicurezza e igiene delle imbarcazioni, permetteva ancora che essi fossero alloggiati in dormitori dotati di un boccaporto ogni 150 posti letto e di una latrina ogni 80 persone. In queste condizioni non era insolito lo sviluppo di vere e proprie epidemie di patologie broncopolmonari, gastroenteriche, tracoma, morbillo. I medici, pur presenti a bordo, spesso non riuscivano a contenere efficacemente i contagi a causa della mancanza di locali di isolamento e del sovraffollamento delle infermerie.
Non stupisce, dunque, come ancora negli anni Venti del Novecento le navi che trasportavano i migranti potessero trasformarsi in veri e propri ospedali galleggianti. Un’incidenza profonda di malati che, se era aggravata dalle condizioni della traversata, certo non cominciava nel migliore dei modi. I giornali sanitari di bordo, del resto, restituiscono un quadro piuttosto chiaro dell’alta presenza di patologie anche alla partenza nonostante i controlli delle autorità sanitarie portuali: malaria, sifilide, tracoma, malattie broncopolmonari erano molto diffuse tra coloro che si imbarcavano. Una testimonianza dello scadente stato di salute delle classi povere italiane del periodo.
L’alta percentuale di mortalità infantile rappresentava una delle conseguenze più tragiche delle traversate oceaniche. Lo stato di degrado in cui viaggiavano costituiva un pericolo ancora più serio per i bambini, che non di rado non arrivavano a destinazione. Falcidiati da morbillo, varicella, malattie polmonari e gastroenteriche, il viaggio era per loro un vero e proprio agente patogeno. Freddo, sudiciume, cibo inadeguato, stress psicofisico favorivano il manifestarsi di malattie e trasformavano quelle che potevano essere semplici patologie infantili in epidemie vere e proprie dagli esiti drammatici.
All’interno di questo quadro, gli organismi centrali di governo sembravano mostrare un certo disinteresse per la salute dei migranti. Basti pensare che il Commissariato generale dell’emigrazione non ebbe mai a disposizione le risorse necessarie per dotarsi dell’équipe di medici necessaria ad assicurare la tutela sanitaria dei migranti a bordo delle navi. Come se ciò non bastasse, spesso chi era presente non possedeva le competenze adeguate a ricoprire tale ruolo. Se non mancarono i casi di coloro che si finsero medici pur di imbarcarsi e sottrarsi così alla giustizia, rimane il fatto che essi erano dipendenti delle compagnie di navigazione, limitati dunque nell’espletamento delle loro mansioni.