Il bagaglio dell’emigrante

Come ci si preparava per il viaggio?

Il bagaglio dell’emigrante, 1900 circa

“In generale ogni emigrante di terza classe non ha diritto a trasportare gratuitamente che 100 Kilog. di bagaglio, badando che questo non sorpassi la misura di un terzo di metro cubo né, come già avvertimmo, il bagaglio non può contenere che oggetti di vestiario o biancheria”.

Nella descrizione dei contenuti del bagaglio di alcuni emigrati negli Stati Uniti effettuata dall’etnografa B. Amore, si trovano elencati i seguenti oggetti:

vestito della festa a seconda delle regioni, coperta matrimoniale di seta gialla con frange, coperta matrimoniale a quadrati fatti all’uncinetto da corredo, biancheria, calzini fatti a mano, camicia da notte della dote, lenzuola tessute a mano al telaio con iniziali ricamate in rosso, lenzuola con trine all’uncinetto, utensili da cucina, mortaio. Pentole di rame fatte a mano materassini, guanciali, medicine, fotografie, fogli da musica, lettere, passaporto, croce di san Lorenzo Lapio, libri di preghiera, santini, rosario, reliquari con Santa Filomena, coltello e tazzina matrimoniali con iniziali, bambola di porcellana e di pezza, rotella per tagliare i ravioli, attrezzi da lavoro, coltello da tasca, libri: Vite dei Santi, Andrea da Barberino, I reali di Francia, Guerrin Meschino (Andrea da Barberino, “Guerrino detto il Meschino”, 1893) lettere, gioielli, in particolare orecchini di corallo.


De Amicis si imbarca a Genova nell’aprile del 1884 come passeggero di prima classe sul piroscafo a vapore e a vela “Nord America” (da lui ribattezzato “Galileo”), che trasporta 1600 emigranti e un centinaio di passeggeri di prima e seconda classe, e sbarca a Montevideo una ventina di giorni dopo. Le sue osservazioni sul viaggio le riportò, nel 1897 in un pamphlet, intitolato In America. Nella “piccola Italia americana” più precisamente nella colonia di San Carlos, in Argentina, De Amicis trascorse “pochi giorni indimenticabili” che iniziarono con la vista della bandiera italiana su un carro che guidava un convoglio in una pianura senza fine. I carri erano pieni di italiani, la maggior parte piemontesi. Si sentì apostrofare ‘compatriotta’, e venne accolto con un: “cerea monsù, ca vena avanti” che lo fece sentire immediatamente a casa. Riconosce infatti i visi e gli abiti dei piemontesi e osservò: “era il Piemonte vivo e genuino che ci veniva incontro fra quelle due strisce di terreno lavorato a orto, che pareva la nostra campagna”. …: “Nello stato di Santa Fè, tutti, persino gli indigeni parlano piemontese”.